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Flashback e Flash forward

flashback flash forward

Il flashback e il flashforward sono due tecniche di gestione del tempo utilizzate in letteratura, ma anche nel cinema e nella serialità, che si muovono in due direzioni opposte.

Il flashback (o analessi) è il ritorno a un evento del passato, un salto temporale all’indietro rispetto al presente narrativo della storia. Con il flashback, il lettore viene a conoscenza di nuovi elementi utili alla comprensione del conflitto di un personaggio o dell’evoluzione della trama. I flashback possono essere scritti al presente, come se i fatti narrati stessero avvenendo in quel momento, o al passato; spesso assumono la forma di sogni/incubi da cui un personaggio si risveglia, tecnica ormai divenuta un cliché letterario, oppure essere sviluppati come capitoli a sé stanti. Implicando l’abbandono temporaneo del presente narrativo, i flashback hanno la funzione di aumentare la suspense creata nel romanzo, poiché solo al termine il lettore può scoprire come va avanti la storia; costringendo a una lettura più lenta e immersiva, essi danno luogo anche a un cambiamento di ritmo, ma usati in abbondanza rischiano di rallentare troppo un romanzo.

Il flash forward (o prolessi), invece, consiste in un salto temporale nel futuro, di cui ci viene mostrato qualcosa in anteprima. I flash forward servono a incuriosire il lettore su come si arriverà a un determinato fatto, ragion per cui sono sempre seguiti da scene e capitoli che ricostruiscono gli eventi precedenti alla prolessi. Suscitando curiosità riguardo al futuro, i flash forward hanno la funzione di accelerare il ritmo della lettura, poiché chi legge è spinto ad andare avanti da un senso di urgenza e necessità. Se si sceglie di utilizzare la prolessi, è importante non tenere troppo tempo il lettore sulla corda prima di dirgli la verità, altrimenti si rischia di perderne la fiducia e l’attenzione.

Per le loro caratteristiche peculiari, flashback e flash forward si rivelano scelte vincenti all’interno del genere thriller, ma, se costruiti e gestiti come si deve, sono spendibili anche in altri generi letterari.

Come nasce la fantascienza

Fantascienza

La fantascienza o finzione speculativa (speculative fiction) è una scrittura del futuro che immagina i possibili progressi della scienza e della tecnologia, mettendone in scena le conseguenze. Questo tipo di scrittura nasce da tre ipotesi:

  • “E se…?”
  •  “Se solo…”
  • “Se continua così…”

Riguardo alla prima, un esempio potrebbe essere: “E se un giorno gli alieni atterrassero sulla Terra e ci svelassero il segreto della vita eterna?”, una domanda sul senso di un cambiamento che stravolgerebbe la nostra esistenza.

La seconda ipotesi potrebbe essere la seguente: “Se solo potessi vedere attraverso le pareti”, qualcosa che fa immaginare un futuro molto più interessante del nostro presente, ma anche i suoi possibili rischi.

La terza ipotesi, quella più sfruttata, prende un aspetto del reale, qualcosa di noto a tutti e anche un po’ preoccupante, e lo porta ai massimi livelli, mostrandoci le conseguenze estreme di qualcosa che esiste già. “Se continua così, avremo telecamere in ogni angolo della strada e perfino nelle nostre case”, questo è il tipo di ipotesi che deve aver fatto George Orwell prima di scrivere 1984. Oppure ancora: “Se continua così, le intelligenze artificiali sostituiranno l’uomo in tutti gli ambienti di lavoro”. Queste ultime evenienze sono le più vicine a delle vere predizioni, sebbene non abbiano la pretesa di anticipare il futuro nella sua complessità. La funzione della fantascienza, infatti, non è quella di predire il futuro, ma di farci vedere aspetti del presente che non sono così evidenti e le derive che potrebbero conoscere; in altre parole, è un avvertimento, un invito a maneggiare con cura le cose che abbiamo a disposizione per evitare che esse ci si ritorcano contro.

In conclusione, la finzione speculativa è abile nel raccontare il presente da un punto di vista inedito, da un’angolatura diversa dalla nostra essendo noi totalmente immersi in esso, ma non il futuro, che resta impossibile da incasellare e sul quale le previsioni falliscono il più delle volte.

La narrazione in terza persona

terza persona

Per ovviare ai limiti della narrazione in prima persona, che consente di fornire solo un certo numero di informazioni, si ricorre alla terza persona, di cui esistono tre tipologie: terza persona con unico punta di vista, con punto di vista mobile e narratore onnisciente.

La terza persona con unico punto di vista segue un personaggio in via preferenziale, adottandone il punto di vista, e permette di dare informazioni in maniera libera, ad esempio sull’aspetto fisico del personaggio prescelto; se da un lato essa implica un vantaggio informativo, dall’altro è priva dell’effetto intimo e immediato della prima persona.

La terza persona con più punti di vista o punto di vista mobile adotta lo sguardo di più personaggi, fornendo ancora più informazioni al lettore. Il narratore in terza persona non sa tutto dei suoi personaggi, ma ne svela pensieri, azioni ed emozioni solo nel momento in cui essi vivono una determinata situazione. Lo scrittore che sceglie questa tipologia di punto di vista deve stare attento a distribuire in modo sapiente le informazioni nel romanzo, a non inserire commenti personali e, soprattutto, a non favorire eccessivamente un punto di vista a discapito di un altro, mantenendo sempre un certo equilibrio.

Il narratore onnisciente, infine, conosce già tutta la storia e tutti personaggi, il loro passato e la loro vita psichica, conoscenza che gli permette di arricchire la narrazione di molti dettagli. Avendo accesso a tutte le informazioni, il narratore onnisciente deve essere accorto a dosare bene la caratterizzazione dei personaggi, evitando di dire troppo, e non deve avere una voce troppo invadente nella storia, permettendo al lettore di godersi l’esperienza della lettura e di farsi una propria opinione sulla vicenda che gli viene raccontata. Il narratore onnisciente viene scelto per raccontare storie ricche di personaggi che agiscono, come saghe familiari, romanzi fantasy o storici, esempi di narrativa corale contemporanea.

La narrazione in prima persona

Narrazione in prima persona

Il narratore o voce narrante è la voce di colui che narra la storia all’interno di un libro secondo un determinato punto di vista o posizione, un testimone fittizio degli eventi. Narratore e scrittore non sono sinonimi, ma le due cose coincidono nei romanzi autobiografici.

Quando si sceglie la prima persona si assume il punto di vista del narratore, che molto spesso è il protagonista della storia. La prima persona è una narrazione fluida, unilaterale, in cui c’è molto spazio per l’intimità e la psicologia del personaggio, che conosciamo a pieno. Per queste ragioni è un tipo di narrazione che permette di gestire al meglio l’arco di trasformazione del protagonista, se questo coincide con il narratore. Il narratore in prima persona fornisce informazioni poco attendibili, incomplete e soggette a fraintendimenti, ma è proprio questo a rendere la storia ancora più interessante e portatrice di sorprese future.

Anche se consente di esplorare a fondo il personaggio, la narrazione in prima persona ha due grandi limiti: il personaggio-narratore non può suggerire lo stato d’animo degli altri personaggi e deve aver già vissuto i fatti per poterli raccontare. Inoltre, il personaggio-narratore non tende a fare una descrizione fisica della sua persona perché si conosce già, cosa che porta gli scrittori a ricorrere a vari espedienti (ad esempio far specchiare il personaggio o farlo conversare con un altro che dà informazioni sul suo aspetto).

I romanzi in prima persona non adottano per forza un unico punto di vista, ma ne possono avere di multipli. I romanzi di questo tipo seguono un andamento fisso o variabile: fisso quando i vari punti di vista sono restituiti in un ordine immutabile e hanno tutti lo stesso peso, variabile quando essi sono restituiti senza un ordine preciso e nessuno predomina necessariamente sull’altro. Inserire più persone narranti all’interno di un libro aumenta la complessità della storia, ma per l’autore comporta anche la difficoltà di studiare e variare continuamente la voce dei personaggi per non renderli tutti uguali, oltre alla difficoltà iniziale di parlare con un tono di voce diverso dal proprio. In aggiunta, il punto di vista multiplo fa smarrire al lettore la gerarchia dei personaggi, perché gli fa vedere gli eventi con sguardi sempre diversi l’uno dall’altro.

La narrazione in prima persona è utile per gli scrittori esordienti poiché li aiuta a non incappare in errori di punti di vista ed è consigliata a coloro che vogliono indagare la psiche dei loro personaggi, uno solo o tanti, concentrandosi di meno sull’azione.

I diritti del lettore secondo Daniel Pennac

I diritti del lettore

In un mondo di diritti e di doveri, anche il lettore vanta alcuni diritti nel rapportarsi con l’oggetto libro. Sposando l’idea rodariana che il verbo leggere non vuole l’imperativo ed evidenziando alcune storture dell’educazione scolastica e familiare, lo scrittore francese Daniel Pennac elenca i diritti del lettore nel suo Come un romanzo.

  • Il diritto di non leggere

Non tutti i momenti della vita sono favorevoli alla lettura, non sempre siamo mentalmente predisposti a lasciarci trascinare dalle parole e a volte ci sono necessità pratiche che superano di importanza la lettura.

  • Il diritto di saltare le pagine

Se il libro è noioso, potrebbe essere una soluzione per arrivare prima alla fine; tuttavia, saltare le pagine potrebbe farci perdere alcuni dettagli importanti della trama o essere un inutile surrogato dell’abbandono vero e proprio.

  • Il diritto di non finire un libro

La lettura non dovrebbe mai essere una forzatura, ragion per cui sarebbe meglio abbandonare un libro che non ci appassiona abbastanza o che non ha senso per noi. Se ci forzassimo a leggerlo solo perché abbiamo messo mano al portafogli per acquistarlo rischieremmo seriamente di odiare la lettura.

  • Il diritto di rileggere

Ci sono libri che sono un porto sicuro, che ci fanno stare bene o che ci fanno tornare bambini. Di tanto in tanto, anche se conosciamo già la storia, è giusto riprendere in mano questi libri per rispolverare le piacevoli sensazioni del passato, senza sentirci in colpa perché stiamo trascurando cose che non abbiamo ancora letto.

  • Il diritto di leggere qualsiasi cosa

Non esistono generi o libri superiori agli altri, ma soltanto il gusto personale. In veste di lettori, quindi, siamo liberi di passare da un rosa a un giallo, da un umoristico a un saggio o da un romanzo impegnato a uno più leggero.

  • Il diritto al bovarismo

Inteso come desidero smanioso di evasione dalla realtà, il bovarismo fa parte dell’esperienza di lettura a tutti gli effetti e si manifesta con la sovrapposizione tra il mondo reale e quello romanzesco, senza riuscire più a distinguere l’uno dall’altro.

  • Il diritto di leggere ovunque

Nella vita frenetica dei nostri anni, ogni momento di pausa può essere una buona occasione per leggere, dunque ben vengano le sessioni di lettura sui mezzi di trasporto, nelle automobili parcheggiate, nelle sale d’attesa e nei luoghi più riservati.

  • Il diritto di spizzicare

Un po’ a causa delle frenesia contemporanea e un po’ a causa della scarsa predisposizione a leggere in uno specifico momento, spizzicare un libro, cioè leggerlo un poco per volta, è una buona soluzione per portare avanti una lettura.

  • Il diritto di leggere a voce alta

Se abbiamo finito la scuola da molti anni, probabilmente non siamo più abituati a leggere a voce alta e releghiamo la lettura nella nostra mente. Leggere a voce alta, invece, è un’esperienza che rende le parole vive, sonore, che ci fa testare le nostre abilità interpretative e che ci intrattiene meglio.

  • Il diritto di tacere

Possiamo leggere per ammazzare il tempo, per evadere dalla realtà, per intrattenerci, per identificarci in una storia, per combattere la solitudine o per semplice curiosità. Qualunque sia la ragione che ci spinge a prendere un libro tra le mani, abbiamo il diritto di mantenere il riserbo su di essa e nessuno dovrebbe mai insistere per conoscerla.

Il decalogo di Pennac contiene i diritti del lettore, non gli obblighi, il che dimostra quanto la lettura sia un’esperienza soggettiva e libera dalle costrizioni. Alcuni lettori, infatti, potrebbero aggiungere alla lista i seguenti diritti: il diritto di sottolineare, il diritto di fare le orecchie alle pagine, il diritto di macchiare il libro e, perché no, il diritto di lanciarlo dalla finestra.

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L’importanza della riscrittura

Riscrittura

Molti scrittori alle prime armi pensano che, una volta terminata la prima stesura di un romanzo, il lavoro sia già finito. Niente di più sbagliato. La vera scrittura, infatti, è riscrittura, cioè un lavoro continuo di perfezionamento e di limatura, per svolgere il quale lo scrittore deve tornare sul romanzo di continuo. “La prima stesura di qualsiasi cosa è merda” sosteneva Ernest Hemingway, l’autore americano de Il vecchio e il mare. È questa la ragione per cui un autore dovrebbe riscrivere quello che ha creato, apportando un numero di revisioni variabile da persona a persona e da opera a opera. A grandi linee, potremmo dire che un buon numero di revisioni è 5 e un numero eccellente 10, ma i più temerari potrebbero arrivare perfino a 15.

Gli scrittori navigati dicono che la prima stesura si faccia col cuore e la seconda con la testa: nella prima fase ci troviamo nel momento geniale della creazione, dell’ispirazione e dell’entusiasmo; nella seconda, invece, dobbiamo analizzare ciò che abbiamo prodotto per capire cosa funziona e cosa no, cosa è superfluo e cosa mancante e il senso complessivo dell’opera. Il lavoro di riscrittura o di revisione è necessario perché durante la prima stesura non abbiamo il sufficiente distacco per guardare alla nostra opera con obiettività e spirito critico, ma, al contrario, è un momento in cui tutto ci sembra perfetto; nella fase di riscrittura, invece, siamo abbastanza lucidi da renderci conto degli errori.

La riscrittura non riguarda solo il rapporto dello scrittore con la sua opera, ma anche il rapporto dell’opera con le case editrici e gli editor/redattori editoriali. Presentare la prima versione di un romanzo a una casa editrice, infatti, è un autogoal, qualcosa che diminuisce le probabilità di essere pubblicati. Questo accade perché la prima stesura è materiale grezzo e, in quanto tale, non potrà avere la considerazione che merita fino a quando non sarà stato lavorato; a ciò si aggiunge anche il fatto che una prima stesura richiede maggiori tempi e costi di produzione editoriali.

Infine, riguardo al rapporto con i professionisti del settore, è sempre buona norma contattare un editor quando il romanzo è nella sua versione migliore, cioè quando abbiamo fatto tutti i cambiamenti necessari e non abbiamo più incertezze. Se commissioniamo l’editing di un romanzo di cui non siamo sicuri, rischiamo di voler fare nuove modifiche, vanificando il lavoro dell’editor. Una volta consegnata la versione migliore del romanzo, spetterà poi all’editor segnalarci le cose che non vanno, quelle che, in quanto non professionisti e in quanto parziali, non possiamo cogliere.

Quali sono le varie tipologie di incipit

Incipit

L’incipit di un romanzo è costituito dalle prime righe con cui uno scrittore o una scrittrice inizia la sua storia. È uno dei primi approcci del lettore al libro e ha lo scopo di incuriosirlo e di spingerlo a proseguire, facendo sì che attui la cosiddetta sospensione dell’incredulità, il patto implicito tra lettore e scrittore con il quale il primo accetta di credere a ciò che sa essere finzione nel lasso di tempo della lettura. In linea generale, affinché un incipit sia efficace è importante che esso descriva un momento della vicenda capace di conquistare l’attenzione del lettore o che getti le basi per la costruzione di un mondo narrativo plausibile e coerente al suo interno.

Nella letteratura italiana sono celebri gli incipit di Cesare Pavese (1908-1950), i cui racconti iniziano tutti con una preposizione, semplice o articolata, che tiene il lettore in sospeso fino alla fine della frase, quando gli viene rivelato il vero senso del discorso.

«Di tutta l’estate che trascorsi nella città semivuota non so proprio che dire» (L’estate).

Ogni scrittore ha il suo modo di agganciare il lettore, ma esistono alcuni incipit virtuosi sui quali vale la pena soffermarsi.

Incipit dinamico

È un incipit caratterizzato dal movimento, in cui vengono descritte situazioni e personaggi che sono in azione nei contorni di una scena delineata e che mette in movimento anche l’immaginazione del lettore.

«Stavo per superare Salvatore quando ho sentito mia sorella che urlava. Mi sono girato e l’ho vista sparire inghiottita dal grano che copriva la collina.» (Io non ho paura, Niccolò Ammaniti).

Incipit in medias res

È un incipit che catapulta subito nel vivo della storia, privo di sequenze narrative che chiariscono il contesto e che lascia al lettore il compito di ricostruirlo, con i suoi personaggi e i suoi accadimenti.

«Quel giorno era impossibile uscire a passeggio. Al mattino, in realtà, avevamo gironzolato per un’ora tra gli arbusti spogli, ma dopo pranzo (Mrs Reed, quando non c’erano ospiti, pranzava presto) il freddo vento invernale aveva portato con sé nubi così scure e una pioggia così insistente che altre escursioni all’aperto erano decisamente fuori questione.» (Jane Eyre, Charlotte Bronte).

Incipit visivo

È un incipit che stuzzica il senso della vista del lettore, abituandolo fin da subito a esercitare l’immaginazione per visualizzare il romanzo come se si svolgesse davanti ai suoi occhi.

«Alzai lo sguardo per via delle risate, e continuai a guardare per via delle ragazze. Notai prima di tutto i capelli, lunghi e spettinati. Poi i gioielli che brillavano al sole. Erano in tre, così lontane che vedevo solo la periferia dei loro lineamenti, ma non importava: capii subito che erano diverse da tutte le altre persone del parco.» (Le ragazze, Emma Cline).

Incipit ribelle

È un incipit che, rompendo le convenzioni letterarie, suscita una reazione forte nel lettore, di sorpresa o di ribrezzo. È utilizzato per affrontare tematiche controverse, spinose o delicate e, se orchestrato bene, non genera un rifiuto nel lettore, ma lo invoglia a continuare.

«La mattina che si uccise anche l’ultima figlia dei Lisbon (stavolta toccava a Mary: sonniferi, come Therese) i due infermieri del pronto soccorso entrarono in casa sapendo con esattezza dove si trovavano il cassetto dei coltelli, il forno a gas e la trave del seminterrato a cui si poteva annodare una corda.» (Le vergini suicide, Jeffrey Euginedes).

Incipit descrittivo

È un incipit classico, composto da pure sequenze narrative che chiariscono l’ambientazione e i vari tipi di personaggi che popolano la storia. Esso ha la funzione di informare, non di emozionare, motivo per il quale trascura l’interiorità e la psicologia dei personaggi, che saranno approfondite nel corso della narrazione.

«Nell’ospedale dell’orfanotrofio – reparto maschi a St. Cloud’s, nel Maine – due infermiere erano incaricate di dare un nome ai neonati e controllare che il loro piccolo pene guarisse bene, dopo la circoncisione obbligatoria. A quei tempi (nel 192…) tutti i maschi nati a St. Cloud’s venivano circoncisi perché il medico dell’orfanotrofio aveva incontrato difficoltà di vario genere nel curare i soldati incirconcisi durante la Grande Guerra.» (Le regole della casa del sidro, John Irving).

Questi sono solo alcuni dei tipi di incipit presenti in letteratura, accanto ad altri validi ma difficili da categorizzare. Non esistono regole fisse per creare un incipit perfetto, ma è importante che l’autore conosca il modo giusto per ingraziarsi il lettore.

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Quali sono le varie tipologie di editori

Ogni editore possiede un catalogo, cioè un insieme di titoli, collane e autori che ne definisce l’identità. È possibile distinguere due principali categorie di editoria: l’editoria di varia, che viene venduta nelle librerie, e l’editoria scolastica, che ha tempi e modalità di produzione e di commercializzazione differenti. La maggior parte degli editori di varia punta sulla narrativa, il genere più richiesto, poi sulla saggistica o su entrambi.

All’interno della saggistica, ci sono editori che hanno una particolare specializzazione: pubblicazioni storiche (Laterza), manualistica (Hoepli), testi giuridici o professionali (Giuffrè), divulgazioni scientifiche (Zanichelli), arte (Electa, Skira, Franco Maria Ricci), turismo e cartografia (Istituto Geografico DeAgostini e Touring Editore), musica intesa come spartiti (Ricordi e Curci) o libri che parlano del tema, cinema (Gremese e Il Castoro delle origini) e poesia (Crocetti). Scendendo ancor più nello specifico, ci sono anche editori che si dedicano al mondo e alle professioni delle biblioteche e del libro, come l’Editrice Bibliografica. Tra gli editori di graphic novel menzioniamo Coconino Press, Beccogiallo e Bao e, tra quelli di fumetti, Panini Comics e Bonelli. Molto viva è anche l’editoria religiosa, con nomi dalla lunga tradizione quali ElleDiCi, Dehoniane, San Paolo, Paoline, ma anche Città Nuova, Queriniana, Morcelliana e Vita e Pensiero; quest’ultima è la prima university press italiana, legata all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Nell’editoria scolastica i nomi più importanti in Italia sono Zanichelli, che racchiude diverse sigle quali Loescher e Atlas, e Pearson, leader mondiale nel settore che in Italia comprende le sigle Paravia, Bruno Mondadori, Linx, Lang, Archimede, Longman e Paramond.

Una categoria a sé stante è quella delle grandi opere, progetti di grande portata che coinvolgono varie professionalità e richiedono un lungo e articolato lavoro. Distribuite fino a poco tempo fa attraverso la vendita rateale e in più volumi, al loro interno una delle capostipiti è l’Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, nota come La Treccani. Tra le grandi opere ci sono anche le opere di consultazione (reference books), di dimensioni minori delle enciclopedie e in uno o più volumi, come i vocabolari. Fanno parte delle grandi opere anche i volumi strenna, libri pregevoli che le grandi aziende acquistano dagli editori e danno in omaggio ai clienti più facoltosi in occasione delle festività natalizie; una volta questo settore si definiva editoria bancaria.

Un ulteriore categoria di editori è costituita dagli editori occasionali, specializzati nell’allestire i cosiddetti instant book, libri che mirano ad essere venduti sfruttando il clamore mediatico di un avvenimento recente, come la morte di un personaggio noto o la vittoria di un determinato partito politico. Nelle edicole circolano altri due generi editoriali pensati appositamente per questo canale: i collaterali, libri allegati a quotidiani o a periodici, e i collezionabili, grandi opere costituite da fascicoli venduti settimanalmente. Un’ultima categoria è rappresentata dal club del libro, come il Club degli editori nato nel 1960 su iniziativa di Mondadori, che proponeva un libro ogni mese e che sfruttava la formula del silenzio-assenso per inviare automaticamente il volume proposto.

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Qual è il corretto uso dei due punti, dei puntini sospensivi e del punto esclamativo

due punti

Accanto ai più comuni segni d’interpunzione della virgola e del punto ci sono i due punti, i puntini sospensivi e il punto esclamativo, che hanno un utilizzo specifico in grammatica e in letteratura.

La funzione classica/scolastica dei due punti è di introdurre elenchi di persone, cose o eventi, dando al lettore una conoscenza più approfondita rispetto a ciò che li precede. I due punti seguono una proposizione indipendente e non dovrebbero mai separare un verbo dal suo complemento o una proposizione dal suo oggetto.

Esempio:

Per preparare la pizza margherita c’è bisogno di otto cose: farina, acqua, lievito, olio, sale, sugo, mozzarella e basilico. (Uso corretto dei due punti)

Per preparare la pizza margherita c’è bisogno di: farina, acqua, lievito, olio, sale, sugo, mozzarella e basilico. (Uso scorretto dei due punti perché la preposizione “di” è separata dal suo oggetto)

Mettendo da parte gli elenchi, i due punti possono essere utilizzati anche per introdurre una frase che perfeziona l’opera della prima.

Esempio:

Quella sera Giorgio non voleva essere disturbato: era troppo stanco e arrabbiato per poter interagire con qualcuno.

In una frase di questo tipo, i due punti annunciano che qualcosa sta per arrivare, creando un senso d’attesa e favorendo la crescita dell’attenzione. In base alla regola grammaticale, i due punti andrebbero utilizzati una sola volta nella frase, ma alcuni scrittori ne inseriscono di più perché è il loro tratto stilistico.

I puntini sospensivi sono sempre tre, né di meno né di più, e vanno sempre attaccati alla parola che li precede. Si usano soprattutto nelle battute di dialogo per segnalare un’allusione, una reticenza del personaggio o una sospensione del discorso dovuta a un ripensamento. Sul piano dell’intonazione, i puntini sospensivi rappresentano un suono che sfuma e non uno che si interrompe in modo brusco. Quando compaiono fuori dai dialoghi, servono a ritardare la conclusione di una frase e a stupire il lettore, che nel frattempo potrebbe avere fatto una previsione che poi si rivela sbagliata. Anche per i puntini sospensivi vale la regola aurea della moderazione, onde evitare di creare un romanzo pieno di pause.

Esempio tratto dall’incipit di “Pinocchio”:

C’era una volta… Un Re!, diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.

Infine, il punto esclamativo è un’espressione di stupore e di entusiasmo, è un segno di interpunzione enfatizzante che, in quanto tale, andrebbe usato con parsimonia. Usandolo spesso, infatti, il punto esclamativo perde la sua capacità di evidenziare un concetto in mezzo agli altri, poiché tutto viene messo sullo stesso piano. Anche il punto esclamativo può essere un marchio di stile per quegli scrittori che lo inseriscono molte volte contravvenendo alle prescrizioni linguistiche.

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Come si utilizzano i tre tipi di trattino

trattino

Nella lingua italiana esistono tre tipi di trattino: il trattino breve (-), quello medio (–) e quello lungo o lunghissimo (—). Ognuno di questi tre segni di interpunzione, che non sono intercambiabili tra di loro, ha una funzione specifica.

Il trattino breve (-) si utilizza nei termini composti, quali “socio-economico”, “tecnico-amministrativo” e “pre-produzione”.

Il trattino medio ha la funzione di segnalare un inciso, cioè una frase indipendente o un sintagma inserito all’interno di un’altra frase, là dove le virgole non sono sufficienti. Il trattino è quasi sempre doppio, ma ci sono casi in cui può stare anche da solo, cioè casi in cui può aprirsi e non chiudersi perché si chiude sul punto. La parentesi, invece, richiede sempre la sua gemella.

Esempio di trattino singolo:

Marco decise che non si sarebbe più confidato con nessuno – con nessuno tranne che con lei.

Sebbene i trattini e le parentesi siano sostituibili da un punto di vista normativo, in letteratura l’utilizzo degli uni o degli altri è una scelta meramente stilistica. Parentesi e trattini possono convivere nello stesso testo: si utilizzano le prime per segnalare divagazioni più lunghe o per concentrarsi su argomenti un po’ diversi da ciò che le precede o le segue – già solo da un punto di vista grafico le parentesi creano una netta separazione – e i secondi per le piccole deviazioni, che non si allontanano molto dall’oggetto della frase. Il trattino medio può essere utilizzato anche per introdurre una battuta di dialogo, quindi al posto delle virgolette alte (“”) o dei caporali («»); può indicare una frattura sintattica, cioè il punto in cui una frase svolta di colpo; può segnalare un anacoluto, cioè un improvviso cambiamento di progetto della frase; o può indicare un cambiamento di tono verso il basso, cioè per dire cose meno importanti.

Il trattino è un elemento di complicazione della frase e, in quanto tale, andrebbe evitato nella prosa che mira a essere diretta e a conquistare un lettore pigro o impaziente.

Esempio di anacoluto:

Io quel tipo – non mi piace, lo sai.

Il trattino lungo, infine, indica un’interruzione brusca, quindi è molto utile nelle battute di dialogo in cui un personaggio viene interrotto. Questo è un segno di interpunzione tipicamente americano e perlopiù sconosciuto alla lingua italiana, che, erroneamente, ricorre ai tre puntini di sospensione per segnalare le interruzioni.

Esempio di utilizzo del trattino lungo:

“Come stai?”

“Perché mi fai sempre la stessa domanda? Lo sai benissimo come sto e non sopporto che—”

“E quando te lo avrei chiesto, scusa?”

In conclusione, il trattino è un simbolo efficace e versatile, ma non lo si dovrebbe utilizzare in modo eccessivo e andrebbe limitato ai contesti in cui gli altri segni di interpunzione sono inadeguati.

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