Il flashback e il flashforward sono due tecniche di gestione del tempo utilizzate in letteratura, ma anche nel cinema e nella serialità, che si muovono in due direzioni opposte.
Il flashback (o analessi) è il ritorno a un evento del passato, un salto temporale all’indietro rispetto al presente narrativo della storia. Con il flashback, il lettore viene a conoscenza di nuovi elementi utili alla comprensione del conflitto di un personaggio o dell’evoluzione della trama. I flashback possono essere scritti al presente, come se i fatti narrati stessero avvenendo in quel momento, o al passato; spesso assumono la forma di sogni/incubi da cui un personaggio si risveglia, tecnica ormai divenuta un cliché letterario, oppure essere sviluppati come capitoli a sé stanti. Implicando l’abbandono temporaneo del presente narrativo, i flashback hanno la funzione di aumentare la suspense creata nel romanzo, poiché solo al termine il lettore può scoprire come va avanti la storia; costringendo a una lettura più lenta e immersiva, essi danno luogo anche a un cambiamento di ritmo, ma usati in abbondanza rischiano di rallentare troppo un romanzo.
Il flash forward (o prolessi), invece, consiste in un salto temporale nel futuro, di cui ci viene mostrato qualcosa in anteprima. I flash forward servono a incuriosire il lettore su come si arriverà a un determinato fatto, ragion per cui sono sempre seguiti da scene e capitoli che ricostruiscono gli eventi precedenti alla prolessi. Suscitando curiosità riguardo al futuro, i flash forward hanno la funzione di accelerare il ritmo della lettura, poiché chi legge è spinto ad andare avanti da un senso di urgenza e necessità. Se si sceglie di utilizzare la prolessi, è importante non tenere troppo tempo il lettore sulla corda prima di dirgli la verità, altrimenti si rischia di perderne la fiducia e l’attenzione.
Per le loro caratteristiche peculiari, flashback e flash forward si rivelano scelte vincenti all’interno del genere thriller, ma, se costruiti e gestiti come si deve, sono spendibili anche in altri generi letterari.
Per ovviare ai limiti della narrazione in prima persona, che consente di fornire solo un certo numero di informazioni, si ricorre alla terza persona, di cui esistono tre tipologie: terza persona con unico punta di vista, con punto di vista mobile e narratore onnisciente.
La terza persona con unico punto di vista segue un personaggio in via preferenziale, adottandone il punto di vista, e permette di dare informazioni in maniera libera, ad esempio sull’aspetto fisico del personaggio prescelto; se da un lato essa implica un vantaggio informativo, dall’altro è priva dell’effetto intimo e immediato della prima persona.
La terza persona con più punti di vista o punto di vista mobile adotta lo sguardo di più personaggi, fornendo ancora più informazioni al lettore. Il narratore in terza persona non sa tutto dei suoi personaggi, ma ne svela pensieri, azioni ed emozioni solo nel momento in cui essi vivono una determinata situazione. Lo scrittore che sceglie questa tipologia di punto di vista deve stare attento a distribuire in modo sapiente le informazioni nel romanzo, a non inserire commenti personali e, soprattutto, a non favorire eccessivamente un punto di vista a discapito di un altro, mantenendo sempre un certo equilibrio.
Il narratore onnisciente, infine, conosce già tutta la storia e tutti personaggi, il loro passato e la loro vita psichica, conoscenza che gli permette di arricchire la narrazione di molti dettagli. Avendo accesso a tutte le informazioni, il narratore onnisciente deve essere accorto a dosare bene la caratterizzazione dei personaggi, evitando di dire troppo, e non deve avere una voce troppo invadente nella storia, permettendo al lettore di godersi l’esperienza della lettura e di farsi una propria opinione sulla vicenda che gli viene raccontata. Il narratore onnisciente viene scelto per raccontare storie ricche di personaggi che agiscono, come saghe familiari, romanzi fantasy o storici, esempi di narrativa corale contemporanea.
Molti scrittori alle prime armi pensano che, una volta terminata la prima stesura di un romanzo, il lavoro sia già finito. Niente di più sbagliato. La vera scrittura, infatti, è riscrittura, cioè un lavoro continuo di perfezionamento e di limatura, per svolgere il quale lo scrittore deve tornare sul romanzo di continuo. “La prima stesura di qualsiasi cosa è merda” sosteneva Ernest Hemingway, l’autore americano de Il vecchio e il mare. È questa la ragione per cui un autore dovrebbe riscrivere quello che ha creato, apportando un numero di revisioni variabile da persona a persona e da opera a opera. A grandi linee, potremmo dire che un buon numero di revisioni è 5 e un numero eccellente 10, ma i più temerari potrebbero arrivare perfino a 15.
Gli scrittori navigati dicono che la prima stesura si faccia col cuore e la seconda con la testa: nella prima fase ci troviamo nel momento geniale della creazione, dell’ispirazione e dell’entusiasmo; nella seconda, invece, dobbiamo analizzare ciò che abbiamo prodotto per capire cosa funziona e cosa no, cosa è superfluo e cosa mancante e il senso complessivo dell’opera. Il lavoro di riscrittura o di revisione è necessario perché durante la prima stesura non abbiamo il sufficiente distacco per guardare alla nostra opera con obiettività e spirito critico, ma, al contrario, è un momento in cui tutto ci sembra perfetto; nella fase di riscrittura, invece, siamo abbastanza lucidi da renderci conto degli errori.
La riscrittura non riguarda solo il rapporto dello scrittore con la sua opera, ma anche il rapporto dell’opera con le case editrici e gli editor/redattori editoriali. Presentare la prima versione di un romanzo a una casa editrice, infatti, è un autogoal, qualcosa che diminuisce le probabilità di essere pubblicati. Questo accade perché la prima stesura è materiale grezzo e, in quanto tale, non potrà avere la considerazione che merita fino a quando non sarà stato lavorato; a ciò si aggiunge anche il fatto che una prima stesura richiede maggiori tempi e costi di produzione editoriali.
Infine, riguardo al rapporto con i professionisti del settore, è sempre buona norma contattare un editor quando il romanzo è nella sua versione migliore, cioè quando abbiamo fatto tutti i cambiamenti necessari e non abbiamo più incertezze. Se commissioniamo l’editing di un romanzo di cui non siamo sicuri, rischiamo di voler fare nuove modifiche, vanificando il lavoro dell’editor. Una volta consegnata la versione migliore del romanzo, spetterà poi all’editor segnalarci le cose che non vanno, quelle che, in quanto non professionisti e in quanto parziali, non possiamo cogliere.
L’incipit di un romanzo è costituito dalle prime righe con cui uno scrittore o una scrittrice inizia la sua storia. È uno dei primi approcci del lettore al libro e ha lo scopo di incuriosirlo e di spingerlo a proseguire, facendo sì che attui la cosiddetta sospensione dell’incredulità, il patto implicito tra lettore e scrittore con il quale il primo accetta di credere a ciò che sa essere finzione nel lasso di tempo della lettura. In linea generale, affinché un incipit sia efficace è importante che esso descriva un momento della vicenda capace di conquistare l’attenzione del lettore o che getti le basi per la costruzione di un mondo narrativo plausibile e coerente al suo interno.
Nella letteratura italiana sono celebri gli incipit di Cesare Pavese (1908-1950), i cui racconti iniziano tutti con una preposizione, semplice o articolata, che tiene il lettore in sospeso fino alla fine della frase, quando gli viene rivelato il vero senso del discorso.
«Di tutta l’estate che trascorsi nella città semivuota non so proprio che dire» (L’estate).
Ogni scrittore ha il suo modo di agganciare il lettore, ma esistono alcuni incipit virtuosi sui quali vale la pena soffermarsi.
Incipit dinamico
È un incipit caratterizzato dal movimento, in cui vengono descritte situazioni e personaggi che sono in azione nei contorni di una scena delineata e che mette in movimento anche l’immaginazione del lettore.
«Stavo per superare Salvatore quando ho sentito mia sorella che urlava. Mi sono girato e l’ho vista sparire inghiottita dal grano che copriva la collina.» (Io non ho paura, Niccolò Ammaniti).
Incipit in medias res
È un incipit che catapulta subito nel vivo della storia, privo di sequenze narrative che chiariscono il contesto e che lascia al lettore il compito di ricostruirlo, con i suoi personaggi e i suoi accadimenti.
«Quel giorno era impossibile uscire a passeggio. Al mattino, in realtà, avevamo gironzolato per un’ora tra gli arbusti spogli, ma dopo pranzo (Mrs Reed, quando non c’erano ospiti, pranzava presto) il freddo vento invernale aveva portato con sé nubi così scure e una pioggia così insistente che altre escursioni all’aperto erano decisamente fuori questione.» (Jane Eyre, Charlotte Bronte).
Incipit visivo
È un incipit che stuzzica il senso della vista del lettore, abituandolo fin da subito a esercitare l’immaginazione per visualizzare il romanzo come se si svolgesse davanti ai suoi occhi.
«Alzai lo sguardo per via delle risate, e continuai a guardare per via delle ragazze. Notai prima di tutto i capelli, lunghi e spettinati. Poi i gioielli che brillavano al sole. Erano in tre, così lontane che vedevo solo la periferia dei loro lineamenti, ma non importava: capii subito che erano diverse da tutte le altre persone del parco.» (Le ragazze, Emma Cline).
Incipit ribelle
È un incipit che, rompendo le convenzioni letterarie, suscita una reazione forte nel lettore, di sorpresa o di ribrezzo. È utilizzato per affrontare tematiche controverse, spinose o delicate e, se orchestrato bene, non genera un rifiuto nel lettore, ma lo invoglia a continuare.
«La mattina che si uccise anche l’ultima figlia dei Lisbon (stavolta toccava a Mary: sonniferi, come Therese) i due infermieri del pronto soccorso entrarono in casa sapendo con esattezza dove si trovavano il cassetto dei coltelli, il forno a gas e la trave del seminterrato a cui si poteva annodare una corda.» (Le vergini suicide, Jeffrey Euginedes).
Incipit descrittivo
È un incipit classico, composto da pure sequenze narrative che chiariscono l’ambientazione e i vari tipi di personaggi che popolano la storia. Esso ha la funzione di informare, non di emozionare, motivo per il quale trascura l’interiorità e la psicologia dei personaggi, che saranno approfondite nel corso della narrazione.
«Nell’ospedale dell’orfanotrofio – reparto maschi a St. Cloud’s, nel Maine – due infermiere erano incaricate di dare un nome ai neonati e controllare che il loro piccolo pene guarisse bene, dopo la circoncisione obbligatoria. A quei tempi (nel 192…) tutti i maschi nati a St. Cloud’s venivano circoncisi perché il medico dell’orfanotrofio aveva incontrato difficoltà di vario genere nel curare i soldati incirconcisi durante la Grande Guerra.» (Le regole della casa del sidro, John Irving).
Questi sono solo alcuni dei tipi di incipit presenti in letteratura, accanto ad altri validi ma difficili da categorizzare. Non esistono regole fisse per creare un incipit perfetto, ma è importante che l’autore conosca il modo giusto per ingraziarsi il lettore.
Accanto ai più comuni segni d’interpunzione della virgola e del punto ci sono i due punti, i puntini sospensivi e il punto esclamativo, che hanno un utilizzo specifico in grammatica e in letteratura.
La funzione classica/scolastica dei due punti è di introdurre elenchi di persone, cose o eventi, dando al lettore una conoscenza più approfondita rispetto a ciò che li precede. I due punti seguono una proposizione indipendente e non dovrebbero mai separare un verbo dal suo complemento o una proposizione dal suo oggetto.
Esempio:
Per preparare la pizza margherita c’è bisogno di otto cose: farina, acqua, lievito, olio, sale, sugo, mozzarella e basilico. (Uso corretto dei due punti)
Per preparare la pizza margherita c’è bisogno di: farina, acqua, lievito, olio, sale, sugo, mozzarella e basilico. (Uso scorretto dei due punti perché la preposizione “di” è separata dal suo oggetto)
Mettendo da parte gli elenchi, i due punti possono essere utilizzati anche per introdurre una frase che perfeziona l’opera della prima.
Esempio:
Quella sera Giorgio non voleva essere disturbato: era troppo stanco e arrabbiato per poter interagire con qualcuno.
In una frase di questo tipo, i due punti annunciano che qualcosa sta per arrivare, creando un senso d’attesa e favorendo la crescita dell’attenzione. In base alla regola grammaticale, i due punti andrebbero utilizzati una sola volta nella frase, ma alcuni scrittori ne inseriscono di più perché è il loro tratto stilistico.
I puntini sospensivi sono sempre tre, né di meno né di più, e vanno sempre attaccati alla parola che li precede. Si usano soprattutto nelle battute di dialogo per segnalare un’allusione, una reticenza del personaggio o una sospensione del discorso dovuta a un ripensamento. Sul piano dell’intonazione, i puntini sospensivi rappresentano un suono che sfuma e non uno che si interrompe in modo brusco. Quando compaiono fuori dai dialoghi, servono a ritardare la conclusione di una frase e a stupire il lettore, che nel frattempo potrebbe avere fatto una previsione che poi si rivela sbagliata. Anche per i puntini sospensivi vale la regola aurea della moderazione, onde evitare di creare un romanzo pieno di pause.
Esempio tratto dall’incipit di “Pinocchio”:
C’era una volta… Un Re!, diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Infine, il punto esclamativo è un’espressione di stupore e di entusiasmo, è un segno di interpunzione enfatizzante che, in quanto tale, andrebbe usato con parsimonia. Usandolo spesso, infatti, il punto esclamativo perde la sua capacità di evidenziare un concetto in mezzo agli altri, poiché tutto viene messo sullo stesso piano. Anche il punto esclamativo può essere un marchio di stile per quegli scrittori che lo inseriscono molte volte contravvenendo alle prescrizioni linguistiche.
Nella lingua italiana esistono tre tipi di trattino: il trattino breve (-), quello medio (–) e quello lungo o lunghissimo (—). Ognuno di questi tre segni di interpunzione, che non sono intercambiabili tra di loro, ha una funzione specifica.
Il trattino breve (-) si utilizza nei termini composti, quali “socio-economico”, “tecnico-amministrativo” e “pre-produzione”.
Il trattino medio ha la funzione di segnalare un inciso, cioè una frase indipendente o un sintagma inserito all’interno di un’altra frase, là dove le virgole non sono sufficienti. Il trattino è quasi sempre doppio, ma ci sono casi in cui può stare anche da solo, cioè casi in cui può aprirsi e non chiudersi perché si chiude sul punto. La parentesi, invece, richiede sempre la sua gemella.
Esempio di trattino singolo:
Marco decise che non si sarebbe più confidato con nessuno – con nessuno tranne che con lei.
Sebbene i trattini e le parentesi siano sostituibili da un punto di vista normativo, in letteratura l’utilizzo degli uni o degli altri è una scelta meramente stilistica. Parentesi e trattini possono convivere nello stesso testo: si utilizzano le prime per segnalare divagazioni più lunghe o per concentrarsi su argomenti un po’ diversi da ciò che le precede o le segue – già solo da un punto di vista grafico le parentesi creano una netta separazione – e i secondi per le piccole deviazioni, che non si allontanano molto dall’oggetto della frase. Il trattino medio può essere utilizzato anche per introdurre una battuta di dialogo, quindi al posto delle virgolette alte (“”) o dei caporali («»); può indicare una frattura sintattica, cioè il punto in cui una frase svolta di colpo; può segnalare un anacoluto, cioè un improvviso cambiamento di progetto della frase; o può indicare un cambiamento di tono verso il basso, cioè per dire cose meno importanti.
Il trattino è un elemento di complicazione della frase e, in quanto tale, andrebbe evitato nella prosa che mira a essere diretta e a conquistare un lettore pigro o impaziente.
Esempio di anacoluto:
Io quel tipo – non mi piace, lo sai.
Il trattino lungo, infine, indica un’interruzione brusca, quindi è molto utile nelle battute di dialogo in cui un personaggio viene interrotto. Questo è un segno di interpunzione tipicamente americano e perlopiù sconosciuto alla lingua italiana, che, erroneamente, ricorre ai tre puntini di sospensione per segnalare le interruzioni.
Esempio di utilizzo del trattino lungo:
“Come stai?”
“Perché mi fai sempre la stessa domanda? Lo sai benissimo come sto e non sopporto che—”
“E quando te lo avrei chiesto, scusa?”
In conclusione, il trattino è un simbolo efficace e versatile, ma non lo si dovrebbe utilizzare in modo eccessivo e andrebbe limitato ai contesti in cui gli altri segni di interpunzione sono inadeguati.
Nella vita di ogni scrittore può arrivare un momento in cui la scrittura diventa faticosa e incapace di fluire liberamente. Per quanti sforzi si facciano, anche legandosi alla sedia della scrivania, in questa fase il contatto con la pagina bianca dà scarsi risultati. Forzarsi a scrivere non è la soluzione, perché tutto ciò che viene creato con la forza è povero, artefatto, inutile. Al contrario, si possono mettere in atto delle strategie, diverse dalla scrittura in sé, che possono aiutare lo scrittore a superare il suo blocco creativo.
Poiché la letteratura trae ispirazione dalla realtà, la prima cosa da fare è immergersi di più nella vita, facendo nuove esperienze, uscendo all’aria aperta e incontrando persone. Quando ci si ritrova in nuovi contesti o si fanno nuove amicizie, infatti, ci si può imbattere in situazioni insolite e/o ascoltare storie di vita che possono risvegliare la creatività; allo stesso modo, anche il contatto con la natura, ricca di forme, colori e odori, può stimolare la fantasia dell’autore. Inoltre l’immersione nella vita facilita il distacco emotivo necessario nei periodi di blocco creativo, è una distrazione che consente di vedere il problema nella giusta prospettiva e non come qualcosa di irrisolvibile.
L’arte richiama l’arte, è questo il motivo per cui, in una fase di blocco artistico, indirizzarsi verso le creazioni degli altri può essere molto utile. È dunque il momento di fare incetta di libri, film e serie televisive, indipendentemente dal fatto che li si conosca già. Rileggere o rivedere qualcosa, infatti, ripropone le fonti originarie di ispirazione, quelle che sono servite nei primi esperimenti letterari, ed è un’attività che dà un senso di sicurezza, importante nei momenti di crisi.
Ultimo, ma non meno significativo, è il darsi obiettivi piccoli e facili da raggiungere. In fase di crisi, è impensabile mantenere i ritmi passati o aumentarli per recuperare il tempo perduto, mentre è sensato fare la metà o la terza parte del solito, nella speranza che sia il modo giusto per riprendere l’abitudine e la passione.
C’è qualcosa che si agita nella vostra mente, un’idea che aspetta di essere messa nero su bianco, ma non sapete ancora da dove cominciare. La stesura di un romanzo richiede tempo, impegno, sacrificio e costanza; tuttavia esistono delle norme che, se rispettate, semplificano il processo.
Prima di sedervi alla scrivania è importante che abbiate le idee chiare su quello che volete fare, che abbiate partorito una storia dall’inizio alla fine; non iniziate mai a scrivere qualcosa per la quale non avete una degna conclusione, seppur vaga. Dovete immaginare il vostro romanzo come un palazzo di cui erigere prima di tutto la struttura; col tempo aggiungerete il resto, ma senza una solida struttura il libro potrebbe cadere a pezzi.
Una volta che avete cominciato a scrivere, concentratevi solo su questo, senza tornare indietro per migliorare le parti già scritte. Siete nella fase della prima stesura e la vostre energie devono essere utilizzate solo a tale scopo, non sprecate in un altro modo. Terminata la prima stesura, potrete rileggere il romanzo daccapo e apportare le modifiche che desiderate, facendo almeno tre revisioni fino a un massimo a piacere (se necessario, anche dieci).
Scegliete un posto adatto per scrivere, pulito, spazioso, ordinato, confortevole e lontano da fonti di disturbo: come riuscireste a fare ordine nella vostra mente se non c’è ordine attorno a voi? Molto spesso le fonti di disturbo sono umane, quindi è consigliabile scrivere con la porta chiusa o nella stanza più isolata della casa. Una musica di sottofondo potrebbe supportare la creatività, ma prediligete un repertorio rilassante e non troppo vivace (musica classica, musica per pianoforte, musica di atmosfera).
I supporti fisici per la scrittura variano da persona a persona: c’è chi preferisce scrivere a mano e chi sulla tastiera del computer. Se l’utilizzo eccessivo della tecnologia vi affatica, compromettendo il lavoro di scrittura stesso, è meglio utilizzare un taccuino o un quaderno scolastico e poi, quando il materiale è diventato significativo, trascriverlo al computer. Utilizzate un supporto fisico gradevole al tatto e allo sguardo, perché questa caratteristica potrebbe invogliarvi a scrivere.
La fine di un romanzo è contemporaneamente un momento di gioia e di confusione. Dopo il grande sacrificio per portarlo a compimento, si pone una domanda spinosa ma fondamentale: come lo si propone a una casa editrice?
La maggior parte degli editori attivi richiede tre cose: il romanzo, una sinossi e una biografia dell’autore.
Il romanzo deve essere nel suo stato migliore, gli editori devono accorgersi che c’è stato un grande lavoro alla base e che niente è stato lasciato al caso. Libri zeppi di errori di distrazione o con buchi di trama e incoerenze vistose vengono scartati con molta facilità.
La sinossi deve spiegare il romanzo per intero, in modo sufficientemente dettagliato e includendo anche il finale. Per definizione la sinossi deve essere breve (no, le sinossi di 5-6 pagine non sono vere sinossi), essenziale, chiara e pulita. Vanno evitate le sinossi che non spiegano a dovere gli eventi e che creano un alone di mistero, oppure le sinossi troppo generiche, che non scendono nello specifico. La sinossi, infatti, è lo strumento che permette all’editore di velocizzare il lavoro, evitandogli di dover arrivare alla fine del libro per sapere cosa succede.
La biografia è la presentazione dell’autore, serve alla casa editrice per farsi un’idea generica della persona e venire a conoscenza di eventuali pubblicazioni passate (numero, editori scelti, scelta dell’autopubblicazione). Nella biografia non dovrebbero mancare l’età anagrafica, la provenienza geografica e la professione, mentre i dettagli sulla vita privata sono inutili.
Sebbene siano queste le regole generali per proporre un romanzo, esistono editori che fanno richieste diverse agli autori. Alcuni, ad esempio, vogliono una scheda di presentazione al posto del romanzo e poi, se sono incuriositi, lo richiedono in un secondo momento. Alcuni vogliono un breve estratto dell’opera, conoscere le motivazioni che spingono un autore a proporsi a loro, leggere solo un certo numero di pagine o che il romanzo rispetti determinati requisiti grafici (font, interlinea). Rispettare le richieste di un editore significa rispettare il lavoro di un insieme di professionisti; non farlo è sintomo di arroganza, superficialità o pigrizia.
È inutile inviare un manoscritto a un editore che ha chiuso temporaneamente le selezioni.
La scrittura è un’arte che si apprende con l’esercizio e la lettura – lo dice Stephen King nel suo On Writing: Autobiografia di un mestiere – ma si basa anche su una componente di talento naturale; in altre parole, la capacità di scrittura è un dono, qualcosa di innato che ha solo bisogno di essere sviluppato. Gli autori di tutto il mondo sono impegnati a sorprendere il lettore e trascurano aspetti più importanti dei loro romanzi, commettendo errori grossolani che fanno dileguare il lettore alla velocità della luce.
Ecco una breve lista di errori da non commettere quando si scrive:
Utilizzo eccessivo di avverbi e aggettivi
Nessun lettore vuole sapere che qualcosa è fantastico, ma in che modo è fantastico. Nessun lettore vuole sapere in che modo si svolge un’azione, ma vedersela descrivere. Avverbi e aggettivi sono le parti del discorso che rallentano maggiormente la lettura e che offrono informazioni nebulose al lettore – dire che una donna è bella non ha la stessa efficacia di dire che una donna è bella come il sole che sorge la mattina; dire che una persona cammina velocemente non ha la stessa efficacia di dire che una persona cammina come se una fiamma le bruciasse la schiena – facendo passare lo scrittore per una persona pigra, che non vuole impegnarsi. Avverbi e aggettivi non sono vietati, dopotutto fanno parte della lingua italiana, ma andrebbero usati con parsimonia e, ove possibile, sostituiti con descrizioni più dettagliate.
Ripetizione degli stessi concetti
Nessun lettore vuole leggere qualcosa che ha già letto in precedenza. Molto spesso gli autori alle prime armi, nella convinzione errata che chi legge abbia scarsa memoria, tendono a ripetere gli stessi concetti, a spiegare più volte gli ideali e/o le motivazioni dei personaggi. A ben vedere la ripetizione allunga inutilmente il romanzo, genera noia e, soprattutto, rischia di far sentire il lettore stupido. Quando si scrive bisogna dare per scontato che si verrà letti con attenzione e fidarsi dell’intelligenza delle persone.
Dire al posto di mostrare
La letteratura dovrebbe parlare attraverso le azioni, i comportamenti e i gesti dei personaggi, non attraverso le parole. Uno scrittore che si preoccupa di spiegare minuziosamente perché i personaggi agiscono in un certo modo tradisce la missione della scrittura, quella di creare immagini vivide nelle mente del lettore, di fargli vedere quello che succede con i suoi occhi come se stesse assistendo a uno spettacolo teatrale. Le parole sono alle base delle scrittura, ma è importante saperle usare nel modo giusto, evitando che si trasformino in un’arma a doppio taglio.
Complicare volutamente la scrittura
Se il sogno di ogni scrittore è raggiungere una moltitudine di persone, non può pretendere di comunicare con un linguaggio di difficile comprensione. Spesso, nello sforzo di impressionare editori e lettori, gli scrittori in erba complicano volutamente la scrittura, senza sospettare che nessuna delle due categorie impiegherà il suo tempo per decifrare il libro, bensì passerà oltre. La semplicità è grandezza, è il modo più potente di comunicare, è riguardo verso chi legge. La strada per raggiungere il cuore dei lettori è dritta e liscia, senza curve o buche.